Morire a sé stessi

Tutti i grandi santi e mistici, dalle epoche più antiche a quelle più recenti, hanno sempre sostenuto che per aprire le porte del paradiso bisogna morire a sé stessi.

Qui morire non deve essere inteso nel senso strettamente fisico, ma soprattutto in termini allegorici. Bisogna cioè morire al nostro vecchio io, fatto di paure e convenzioni, per far sì che in noi nasca una nuova dimensione più vicina all’infinito di quanto non fosse la precedente.

Morire a sé stessi significa gettare via la vecchia pelle per ascendere ad una nuova dimensione dell’essere, proprio come il serpente quando si libera dell’involucro che ormai più non gli serve. Morire a sé stessi è lasciare cadere i vecchi luoghi comuni, talvolta vecchi di millenni e passati di generazione in generazione, affinché la vera natura della nostra essenza possa manifestarsi pienamente. E serenamente.

San Francesco, definitivamente morto rispetto all’essere un ragazzo ricco e viziato di una famiglia importante di Assisi, si mise a donare tutti i suoi beni ai poveri. E Cristo stesso diceva che se l’uomo cerca di salvare la sua vita terrena finisce per perdere quella nel Regno Celeste, mentre se perde la propria vita in terra per causa Sua (cioè di Cristo), troverà vita eterna. In realtà Gesù disse anche che chi non era disposto a sacrificare la propria vita per Lui, non poteva essere Suo discepolo.

In sostanza anche il rito del Battesimo non è altro che l’impegno del credente a morire alla vecchia vita di peccato per rinascere ad una nuova vita in Cristo e nel suo insegnamento: l’atto di essere immersi nell’acqua simboleggia la morte e quello di uscire dall’acqua rappresenta la risurrezione, di Cristo e dell’uomo che in Lui crede.

Anche nel Buddismo la salvezza, Vera Vita, può essere raggiunta solo attraverso l’esperienza della morte; analogamente nel Buddismo Zen giapponese la meditazione ha lo scopo di rinunciare a sé ed a tutti i pensieri discriminanti per vivere in semplicità la vera dimensione del proprio essere.

L’importante, come pare dai numerosi insegnamenti elargiti su questo tema, è avere la capacità di non dare per scontato che il proprio modo di vivere sia “quello giusto”.

Ciò che noi chiamiamo “vita” è una sola una piccola porzione dell’essere, un’interpretazione valida (ammesso che valida possa essere) in un preciso luogo e tempo…e forse nemmeno lì.

Non diamo al nostro modo di vedere le cose un valore assoluto, ma semmai relativo. Così facendo, senza identificarci in esso, avremo forse più facilità a trascendere le numerose apparenze che ci circondano per accedere a piani più profondi dell’esistenza.

Questa “crisi” da Covid, in un certo senso, potrebbe averci messo di fronte alla possibilità di una più rapida evoluzione tramite una più rapida presa di consapevolezza. Speriamo di farne tesoro, giacché non tutti potranno sfruttare questa opportunità per crescere. La maggioranza, anzi, parrebbe non cogliere questa possibilità, col risultato di arroccarsi ancora di più nello spazio angusto che gli hanno voluto concedere.