Finché c’è morte, c’è speranza

Finché c’è morte, c’è speranza. La frase appartiene a Giuseppe Tomasi di Lampedusa: la mette in bocca, nel celeberrimo suo libro “Il Gattopardo“, al Principe Fabrizio Salina, il Gattopardo stesso per l’appunto.

Il Principe, un 45enne ormai stanco delle fatiche della vita e tanto più uomo maturo in un’epoca in cui si invecchiava presto (il libro si svolge nel 1860), sente delle campane a morto suonare per uno sconosciuto e pare anelare la fine di tutte le tribolazioni, conscio com’era di quell’epoca di grandi cambiamenti che lo avevano lasciato esausto.

Ed ancor più conscio ed esausto per la giovinezza che scalpitava, che sentiva fremere nella nuova generazione di ragazzi che presto, prestissimo, sarebbero divenuti uomini. Mentre lui presto, prestissimo, sarebbe divenuto un vecchio, vestigia di un passato che non sarebbe più tornato e che per andare avanti avrebbe, in qualche modo, dovuto cambiar d’abito.

Un discorso, quello del Gattopardo, che a noi uomini del terzo millennio per un verso pare amaro. Perché lo è anche, in fondo. Ma che dall’altro lato dovrebbe invece aprirci lo sguardo sul divenire del mondo, sulla successione delle cose della vita che forse un tempo, con una umanità più in bilico tra vita e morte, tra morte e vita, era più serenamente accettata.

La morte corporale, secondo San Francesco, è sorella. Non nemica, né matrigna. Ma sorella. Una grande forza equalizzante, equilibratrice, che tutto riporta alla Terra, la Madre. Da cui tutto alla fine proviene. Dalla Terra appunto.

Per quelli per cui la vita, dunque, è molto più che un semplice accumulo di cellule, la morte è garanzia di nuova trasformazione. Di fine di un ciclo, di ritorno all’assoluto e forse anche di nuova discesa secondo vie e forme nuove.

Una morte giusta, in un certo senso e provocatoriamente, che pone fine alle chance ed esperienze della vita per concedercene altre, una volta che abbiamo più o meno esaurito il nostro passaggio su questo pianeta.

Una morte che dunque non dovrebbe ispirare terrore, ma pace. Non orrore, ma serenità. Serenità nell’accettazione del tempo che passa, prontezza nel cogliere le occasioni di crescita che la vita ci offre, tranquillità del cuore per il palpitante battito dell’Universo, che ancora echeggia malgrado tutto il nostro rumore.

Perché non è importante vivere a lungo, se sprechiamo la vita. Per quanti anni potremo stare su questa terra, se buttiamo via la vita il nostro passaggio terreno altro non sarà che un meschino trascinarsi.

Invece che spaventarci per la morte che si avvicina, dovremmo provare più malinconia anche solo per un minuto speso in mondo insensato.

E di minuti, come sappiamo, ne sprechiamo troppi tutti…